Bëgn udüs. Benvenuti. Wilkommen - Parte 2
- Silvio Di Virgilio
- 9 gen 2021
- Tempo di lettura: 8 min
Prosegue da Bëgn udüs. Benvenuti. Wilkommen - Parte 1
(...)
Infine cominciavano le tanto agognate giornate di sci, con tanto di scuola Ski ogni benedetta mattina.
Io e Ale baravamo sempre durante la selezione per essere messi nello stesso gruppo. Lui all’epoca ( e forse non solo ) era più bravo di me.
Attendevamo in fila insieme agli altri ragazzi che passasse il maestro di sci incaricato della selezione delle classi dopo un brevissimo provino fatto in 50 metri di pista .
«Tu si, tu no, tu in classe 5, tu rimani qui…», arrivava da noi e di solito ci indirizzava con una pacca sulla testa in classi diverse ma «vicine».
Le separava con dei bastoncini da sci piantati a mò di bandiera a dividere i gruppi di sciatori in erba.
Bastoncini che magicamente si spostavano per comprendere me o Alessandro nelle classi di uno o dell’altro. Gli altri ragazzi ci guardavano inorriditi, come ad accusarci di aver dissacrato chissà quale momento ufficiale.
Non sapevano che lì noi eravamo quasi di casa.
In genere il maestro, che spesso era quello dell’anno precedente, se ne accorgeva. Alzava gli occhi al cielo, si girava e continuava il suo giro di battesimi «Tu si, tu no, tu sei del corso principianti…» .
Con Alessandro ci scambiavamo sguardi soddisfatti: anche per quell’anno era andata.
Quelle mattine sono un caleidoscopio confuso che si mescola come i colori nella tavolozza di un pittore..
Le corse con Alessandro a cercare più salti possibili lungo la pista, in barba alle indicazioni delle nostre guide.
Le gite sul ghiacciaio della Marmolada, dove il cielo era del vero azzurro e la luce che riverberava sul ghiaccio della pista faceva male agli occhi. Dove ti potevi riempire i polmoni di aria purissima, giusto il tempo per tuffarti lungo una delle discese più panoramiche delle Dolomiti.
Le gare nel superare tutti nella fila indiana che si creava: serpentoni con alla testa un maestro in tuta rossa o blu e lunghe lunghe code di studenti carichi di paura, eccitazione, frustrazione per l’ennesima caduta o semplicemente stupore per quegli scenari algidi ma caldi, tinti di rosa e cremisi delle vallate dolomitiche a Gennaio e Febbraio.
Gli impianti sciistici ci davano il benvenuto il suono ritmico delle sedute delle seggiovie che arrivano sferragliando veloci dalla stazione a monte. Vere e proprie metropolitane montane, arterie fatte di metallo che portavano il flusso vitale del turismo in questo regno.
Prima di pranzo, finite le rispettive lezioni, papà e zio tornavano dai loro misteriosi giri mattutini raccogliendo la loro prole alla partenza del Col Alto, il principale impianto di allora di Corvara.
C’era sempre il tempo per qualche pista tutti insieme prima di pranzo ed i nostri genitori, insegnanti severi ed esigenti, volevano sempre controllare se i loro pargoli si stessero forgiando a dovere nei sacri fuochi dello sci alpino.
Come moderni maestri ninja che valutavano degli studenti ancora acerbi nelle arti segrete dell’antico oriente.
Noi ragazzi in realtà avevamo solo voglia di divertirci e spesso mal sopportavamo le loro lezioni, ma li devo ringraziare se adesso mi reputo discretamente bravo.
Zio Maurizio prendeva la parola, con il suo fiero accento toscano, che si fonde con la sua parlata romana, rendendola tutt’ora unica e simpatica nonostante la durezza delle sue spiegazioni sulle tecniche sciistiche. «Allora ragazzi, busto a valle, anca a monte…» mentre parlava si metteva in posizione come un manichino, con il busto piegato in una posa concentrata lasciandosi scivolare leggermente verso valle «... poi sposti il peso, il peso sullo sci a valle mi raccomando! Quando fai la curva ti pieghi, giù….giù ‘Sandro! non stare in piedi! Ti pieghi giù, punti la bacchetta e ti tiri su come una molla e fai la curva»...e bum! Di colpo si tirava su alleggerendo il peso sugli sci ruotando nella tanto agognata curva, «...poi si ripete. Adesso Leo scende e vi fa vedere. Voi partite quando ci fermiamo così ci fate vedere se avete capito!».
A quel punto papà partiva con la velocità di un falco.
Scendeva rapido la discesa con l’agilità di un uomo di quindici anni più giovane disegnando nel muro della pista una linea di curve eseguite con la cadenza di un metronomo ben costruito.
Trapuntava la distesa bianca di una serpentina perfetta. Un sapiente sarto che eseguiva un gigantesco punto e croce su un lenzuolo di neve e ghiaccio.
Noi cugini ci scambiavamo sempre qualche battuta lamentosa. Trucco per allentare la tensione che ogni figlio conosce quando sta per essere giudicato dai propri genitori.
Ci provavamo con tutto il cuore ma non saremmo mai riusciti a emulare degli sciatori così navigati.
In compenso avevamo la completa assenza di paura che solo un gruppo di pesti cresciuti a suon di settimane bianche sin dalla tenera età poteva avere.
Com’era? Anca a monte e peso a valle? Il tentativo di seguire la perfezione tecnica durava il tempo in cui la velocità portava quell’ebrezza di libertà e godimento che cercavamo.
Quando l’aria fischia nelle orecchie ed il vento freddo della montagna ti frusta così forte da farti intorpidire le guance, penetrando nel tessuto di pile del berretto.
A quel punto tutto svaniva e rimaneva solo la voglia di proseguire. All’infinito.
Mi capita ancora oggi quando vado a sciare.
Spesso finiva che cadevamo, sbilanciati da qualche mucchio di neve fresca o da una pendenza improvvisa. Ci ridevamo su. Con papà e zio che si mettevano le mani nei capelli.
Alcune rare volte eravamo più diligenti e ci facevano i complimenti, ma non gli volevamo dare troppa soddisfazione.
E’ grazie alla loro perseveranza ed a queste lezioni draconiane che nel tempo, crescendo, i pezzi sono andati al loro posto. Lentamente assorbiti dalla mente e dai muscoli fino a convergere nelle tecniche che così disperatamente cercavano di insegnarmi da piccolo.
Come una pianta che viene inaffiata ma che non fiorisce mai, fino ad un bel mattino, in cui non trovi un bocciolo che non ti aspettavi.
Me ne accorsi la prima volta durante le settimane bianche con i compagni di liceo.
Movimenti che altri amici, non proprio inesperti, trovavano difficili o facevano in modo approssimativo a me venivano naturali. Fu un balsamo per la mia popolarità,non esattamente altissima, al liceo,.
Lì mi sono reso conto quanto avevo appreso da piccolo e che valore avesse.
Verso l’ora di pranzo arrivavamo, sferragliando a bordo di qualche seggiovia, al rifugio dove ci attendevano mamma e zia. Ci aspettavano su qualche terrazza panoramica salutandoci da lontano con la mano come si fa alla stazione quando parte il treno.
Avevamo sempre una fame da lupi.
Entravamo con passo baldanzoso in questi rifugi di legno stracolmi di sciatori dalle tute multicolori. Penetravamo con agilità il muro degli aromi speziati della cucina Ladina misto al vago sentore di fumo di sigarette e di grappa al ginepro.
Avevamo la tracontanza di cowboy affamati che entrano in un saloon del Far West dopo una galoppata di centinaia di chilometri nel deserto del Colorado.
L’andatura, almeno, era quella a causa dei maledetti scarponi che ti costringevano in continuazione ad un passo di danza ‘’Tacco-punta-tacco-punta’’ per evitare di scivolare.
Dovevamo essere una scena buffissima ma eravamo talmente bramosi di cibo che non ce ne fregava niente.
Ci lanciavamo sul bancone del rifugio valutando le pietanze esposte: speck con la Puccia - il pane scuro col sesamo che usano in quelle valli - polenta con i funghi, gulash piccante o semplicemente un panino con la salsiccia.
Ci saremmo divorati tutto.
Satolli e felici come pulcini avevamo giusto il tempo di una veloce pausa che arrivava il momento più sfidante della giornata.
La prova più dura.
La lezione privata con Siegfried.
Un misto di stanchezza ed eccitazione pervadeva Alessandro e me, i "grandi" cui erano riservate quelle lezioni segrete.
Altre due ore su piste ancor più difficili e ghiacciate delle precedenti.
Ci sentivamo come scudieri che erano stati selezionati per un apprendistato durissimo dal loro signore per avere l’onore di servirlo in futuro come cavalieri investiti.
Certo, sarebbero state adornate di rovinose cadute, sederi lividi, muscoli indolenziti ed arti semi congelati in guanti di goretex completamente zuppi.
Ma sarebbero state anche piene di nuovi posti da esplorare, rifugi in cui comprare cioccolate austriache dai gusti improbabili e stradine segrete da percorrere in mezzo a folti boschi che sfociano all’improvviso in un salto bellissimo, di quelli che ti fanno salire lo stomaco in gola.
Cose che solo un Maestro come Siegfried poteva darti.
Il suo modus operandi era portarci sempre in piste riservate a sciatori più esperti. Il suo grande classico, che divenne poi la nostra pista preferita, era la Gran Risa, celebre tappa del mondiale di sci alpino.
Semplicemente una delle piste con la più alta pendenza delle Dolomiti: 63% nel punto massimo.
In più, il percorso della Gran Risa dopo pranzo si trasformava, rendendo il suo chilometro e mezzo circa ancora più insidioso.
Stanca e provata dalle centinaia di sciatori che l’avevano usurata senza rispetto nell’arco della giornata, tirava fuori gli artigli sotto forma di lunghe lastre di ghiaccio dalle mille sfumature turchesi. La neve accumulata dalle lunghe ore di divertimento dei turisti della mattina si trasformava in dossi biancastri e compatti alti fino alla vita, con a volte un ancor più aspro dislivello dal lato nascosto, verso valle.
Lì dove c’erano le strettoie a volte spuntavano fuori dalla coltre bianca dei sassi di granito della grandezza di un pugno a rendere ancora più difficile mantenere la stabilità.
Negli anni ‘90 il canalone era largo appena qualche decina di metri in diversi punti ed il percorso, quando curvava cambiando direzione nel bosco di abeti e conifere, prendeva una pendenza quasi verticale.
La Gran Risa. Tradotto dal Ladino: la grande spaccatura.
Un inferno algido lungo il fianco della montagna.
E noi, degli sbarbatelli, vedevamo solo stupore nei volti degli adulti che superavamo con facilità ed un pò di incoscienza, affannandoci dietro al nostro Guru e divinità montana.
Quante cadute abbiamo fatto su quella pista non lo posso ricordare. Ma sicuramente ricordo il valore di rialzarsi, sempre, che quel luogo mi ha dato.
La settimana bianca trascorreva così. Rapida. Sempre troppo rapida. Più veloce di quanto mai saremmo potuti andare a ‘’uovo’’ con i nostri sci.
Tra un cioccolato caldo al Cafè Corvara, tra una scorpacciata di canederli in brodo o di cervo con i mirtilli era già ora di ricominciare il rito dell’incastro dei bagagli nelle rispettive auto, e del lungo viaggio di ritorno. Questa volta tinteggiato di malinconia e non più di euforia.
Con gli anni siamo cresciuti. I miei genitori e gli zii sono invecchiati.
Ognuno ha cominciato ad avere i propri impegni grandi e piccoli: prima con lo studio poi con il lavoro.
Le occasioni per fare una settimana bianca tutti insieme sono lentamente scemate.
Il ridente Siegfried, il Maestro che scendeva le piste scherzando con uno sci solo per farci divertire e che ci faceva bere il Cioccolato caldo corretto con il liquore nelle Baite del monte Boè sopra Corvara, se n’è andato, dopo aver combattuto la sua battaglia contro una brutta malattia.
Ha eseguito l’ultima discesa, anca a monte e busto a valle, con la sua tecnica perfetta e molleggiata sulle gambe. Scivolando elegante e rapido sull’ultimo pendio. Scomparendo alla vista nel cambio di pendenza con un ultimo guizzo pregno di agilità e tecnica.
Là, dove non possiamo più seguirlo.
Ma Siegfried, stai tranquillo, hai vinto la guerra della tua eredità. La portano avanti i tuoi figli, i nuovi massimi esperti di quelle valli, insieme a noi, i bambini ora adulti a cui hai insegnato.
Il Garnì Bonaria è sempre li, immacolato ed imperituro in quelle valli gelide solo per le temperature. Con la sua regina del focolare, Herta, solerte nel gestire tutto, accogliendo ospiti a suon di dolci appena sfornati.
Quando posso cerco sempre di organizzare una settimana di sci a Corvara. Alcune volte riesco ad organizzare con miei cugini, altre con amici. Altre volte purtroppo non ci riesco.
Ma quando supero Passo Gardena ed entro in quel mondo, mi sento rigenerato, mi sento sempre bambino, mi sento sempre a casa.
Bëgn udüs. Benvenuti. Willkommen.
Bëgn udüs in Alta Badia.

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