Crocevia Parte I
- Silvio Di Virgilio
- 15 lug 2020
- Tempo di lettura: 8 min
Aggiornamento: 4 ago 2020
Avete presente quella voglia di uscire e stare all’aria aperta? L’essere attratti dal profumo della bella stagione che avanza? L'impulso primordiale dello stare fuori dalle quattro mura domestiche? L’alzare gli occhi e guardare il blu del cielo, rimanendo lì fino a quando ti và?
Ecco, questa sensazione, che coglie tutti con vari gradi di intensità almeno una volta l’anno, era decuplicata, centuplicata in noi dopo una primavera chiusi in casa per il maledetto Lockdown. Con la libertà di spostamento, un tempo scontata, diventata merce rara e preziosa.
Ecco perché questo sabato pomeriggio siamo in procinto di una passeggiata per i boschi che cingono il Lago di Nemi, vicino casa nostra.
Che ironia.
Se dieci mesi fa ci avessero prospettato che avremmo letteralmente scalpitato per una sudata di più di tre ore tra boschi, rovi e sentieri poco battuti, in assenza di wifi e 4G, probabilmente ci avremmo riso su di brutto.
D’altronde nessuno di noi è un tipo da campeggio e abbiamo girato alla larga dagli Scout quando eravamo bambini. Gesù, un paio di noi nemmeno sa gestire un barbecue!
Sono l’ultimo della fila di questo gruppo di improbabili avventurieri composto da Viola e Matteo, Mattew e Joanna ed i loro amici "metropolitani" ( quelli del barbecue per intenderci ) Gianmarco e Maria Vittoria, in visita a casa di Viola, mia sorella.
Il morale è alto, la voglia di sgranchirsi le gambe è tanta e la giornata appare splendida ai nostri occhi.
E’ ricca dei profumi silvestri, di promesse di evasione tinte di verde, marrone e azzurro, così liberatoriamente diverse dalle tonalità digitalmente nere e carminie di Netflix, che troppo a lungo ci hanno drogato negli ultimi mesi.
Il sentiero parte da dietro casa di Mattew. Si sviluppa in un anello che scende e costeggia il bordo alto del Lago di Nemi, un lago vulcanico dalla forma di un gargantuesco wok per divinità troppo golose, per poi ricongiungersi con la cosiddetta «Via Sacra» di Nemi, un tempo usata dai seguaci della Dea Diana presenti all’epoca degli Antichi Romani nelle nostre zone.
Mattew e Joanna, gli sponsor della gita, hanno già percorso il sentiero.
Sono stati promoter e precursori, avendo sfruttato questi antichi percorsi per andare a rompere l’embargo nei mesi di quarantena ricongiungendosi per i luoghi lussureggianti del Parco dei Castelli Romani.
Come gli innamorati ai tempi delle famiglie patrizie che percorrevano segrete strade per incontrarsi all’insaputa dei loro parenti.
Solo che questa volta non erano rivali di epoca imperiale a dover essere evitati bensì le tristi limitazioni della Fase 1. Alla faccia tua, distanziamento sociale.
Il programma è semplice: 11 km, ritmo blando, panorami garantiti, qualche selfie di gruppo per i rispettivi social, un numero di pause sigaretta compreso tra le due e le tre ( tranne per me che non fumo ), pit-stop ad una fonte lungo il percorso e ritorno per cena.
Vogliamo ordinare hamburger, patatine e alette di pollo piccanti a domicilio da un posto nuovo in paese: non sia mai che diventiamo troppo salutisti!
Nell’uscire dalle zone residenziali, entrando passo dopo passo negli antichi sentieri di ghiaia e ciottoli, mi rendo conto quanto raramente mi sono soffermato a pensare quanto pregna di storia sia la zona in cui vivo.
Respiriamo l’aria e calpestiamo il suolo dei fondatori della cultura occidentale. L’ho sempre dato per scontato quando invece è un pensiero che andrebbe assaporato più spesso. Come un buon vino d’annata.
Procediamo in fila indiana lungo la vena di terra battuta, un filo di sentiero orizzontale incastonato in un bosco in discesa che delimita il lago in un arco di chilometri.
Siamo elementi estranei che scorrono in un organismo che ha tutte le sfumature dello smeraldo e del cacao. Chiazze di colori alieni cadute per caso nella tavolozza di un sapiente pittore.
Eppur ci accetta, con tutta la dolcezza ed il calore di una madre che riabbraccia il figliol prodigo.
Ci perdiamo, per quei sentieri ombreggiati.
Cala un ritmo onirico e senza tempo sul gruppo. Ci lasciamo cullare dai rumori del sottobosco, baciati sul volto delle chiazze di luce che penetrano tra i rami.
Giganteschi massi ingombrano il sentiero. Abiti di candide ragnatele argentee vestono i tunnel ed i passaggi nelle loro pance. Ci ingoiano avidi risputandoci dall'altro lato.
Il «cai cai cai» acuto di un Astore a caccia nelle fronde alte sopra le nostre teste fa da contrappunto alla lontana sinfonia di un ruscello che salta per decine di metri da una scarpata. Ci accoglie con l’entusiasmo di un vecchio amico che non vedi da tempo.
A volte dei piccoli sentieri deviano da quello principale. Li imbocchiamo guidati dalle nostre guide M&J per ritrovarci su palmi di mani di giganti di roccia, che ci proiettano sopra il bosco scosceso offrendoci viste mozzafiato del Lago di Nemi, e più in là di rive azzurre, da cui nacquero le leggende di Enea nel Lazio.

Su quegli altari di granito offriamo sacrifici fatti di flash e rituali di pose plastiche agli Dei dei Social.
Portiamo il sacrilego del mondo moderno sporcando le atmosfere sempiterne della natura, eppure lei ci accoglie lo stesso, benevola.
Lungo il cammino vengo colto da un impulso incontrollabile: afferro un ramo caduto dal sottobosco.
E’ un legno vecchio, sbiadito dal tempo che ha passato ad aspettarmi.
Misura più di un metro e settanta. E’ torto, quasi avvitato su se stesso. E’ massiccio, lo tengo in mano a malapena. Finisce con un moncherino che ricorda una mano di una strega protesa verso il cielo.
Lo uso come facevano gli antichi sacerdoti di Diana Nemi ed i pellegrini che camminavano in queste vie: battendo avanti a me per far fuggire piccoli animali e controllare che il terreno non sia cedevole.
O almeno così mi immagino. Sto tornando bambino.
«Sembri Gandalf, solo che lui era sicuramente più bello» scherza Joanna.
«Sicuro, ma almeno io sono simpatico!» ribatto sorridendo. Ridiamo.
L’umore è alto ed il gruppo procede spedito.
Quand’ecco l’imprevisto.
Viola è la prima a percepire il forte ronzio e fa cenno agli altri di rallentare.
Dietro una curva vediamo il sentiero che prosegue per una decina di metri. Li, dove il sentiero si restringe tra un terrapieno di rocce verdi di muschio a sinistra ed un burrone a destra centinaia di api ronzano forte gridando il loro disappunto al mondo.
L'alveare dev’essere in una fessura del terrapieno e qualcosa deve averle disturbate.
Forse il gruppo prima di noi che ci ha superato mentre ci esibivamo in un selfie di gruppo sul crinale.
Panico, dubbio, ansia.
La magia di una natura benevola si infrange come cristallo di Boemia, vuole farci pagare l’invasione digitale delle foto di poco prima.
Che fare? Il gruppo si sfalda.
Alcuni dicono di tornare indietro, che è meglio non rischiare. Che la passeggiata ce la siamo goduta lo stesso.
Altri vogliono aspettare: vedere se le api indignate decidono di rientrare al sicuro nel loro alveare, per poi passare la strettoia lentamente ed in modo estremamente rispettoso di quei piccoli esseri rabbiosi.
Io e Matteo proponiamo la soluzione più artistica e decisamente meno plausibile: tagliare in salita nel folto del bosco impervio per incrociare il sentiero delle Piagge qualche centinaio di metri più su.
Panico, dubbio, ansia.
Passiamo così dieci minuti buoni.
Divento irrequieto: «Sentite, io provo a capire se si può fare la risalita per scavallare sull’altro sentiero, fatemi un fischio se avete novità» e mi immergo nella mia prova di forza in salita tra gli arbusti.
Dopo i primi 50 metri già ho capito l’errore che ho fatto: sono pieno di graffi di rovo sulle braccia ed il terreno cedevole ha rischiato di farmi scivolare più di una volta.
Il richiamo di Matteo è provvidenziale: le api si stanno ritirando nella loro casa di cera.
Torno più velocemente possibile sul sentiero, dove il gruppo fa capolino dalla curva verso la zona del terrapieno: ora solo 5-6 api ronzano irriducibili intorno all'alveare.
Che fare? Rischiamo di passare e provocare una rinnovata giusta ira delle custodi del sentiero?
Rischiamo o no? Rischiamo? Sì rischiamo. Il gruppo ha deciso.
Passiamo uno per volta, in silenzio quasi religioso, con le braccia strette lungo i fianchi ad inutile protezione dalle punture.
Gli occhi fissi a terra.
Dei discepoli monelli che passano di fronte al Maestro con la scopa in mano quando è indeciso se dargli una ripassata oppure no.
Mi ricorda una scena di un film della mia infanzia: La Storia Infinita. Quando Atreiu deve passare attraverso il cancello custodito dalle Sfingi, con la paura di restare incenerito ad ogni passo. Una prova di coraggio. E di stupidità.

Tratteniamo il fiato in attesa di un’esplosione di rumore e dolore che, per fortuna, non arriva.
L’ordalia è alle nostre spalle. L’umore torna alto. «Wow, questa va diretta sulla mia storia Instagram» dice Gianmarco. «Beh, sempre meglio di quelle sulla seria A» gli risponde sardonica Maria Vittoria. Gli scherzi sono un buon segno: il pericolo è passato.
Procediamo rapidi ora che non ci sono ostacoli davanti a noi. Io sono l’ultimo del gruppo.
Noto la scarpa destra slacciata, mi fermo. La riallaccio. Faccio cento metri. Ancora slacciata. "Strano" penso. «Andate avanti! Vi raggiungo subito» , faccio cenno agli altri di proseguire.
Senza il vociare dei miei amici davanti a me il bosco tace. Restano solo i rumori dei merli e delle foglie mosse dal vento a farmi compagnia.
C’è una grande pace. Va tutto bene.
A parte la stranissima sensazione di essere osservato.
Ad ogni curva mi sembra di vedere del movimento con la coda degli occhi.
Mi giro di scatto e colgo un riflesso di lunghi capelli neri sparire dietro ad un albero.
"Ok Silvio, è evidente che l'ortica ha proprietà allucinogene e non lo sapevi. Stai vedendo cose che non esistono..." penso.
Continuo a camminare. Il gruppo mi ha distanziato.
Di tanto in tanto il rumore distinto di foglie secche che si spezzano dal peso di qualcosa che cammina qualche decina di metri dietro di me mi fa rizzare i capelli dietro la nuca.
In lontananza, dalla direzione di uno dei sentieri superiori, un latrato di cane riverbera tra gli alberi.
Sento il sangue che si ghiaccia lungo le vene della schiena.
Come d’inverno quando esco vestito troppo leggero per buttare la spazzatura.
Stringo il mio bastone da Druido talmente forte da sbiancare le nocche sulle mani, ho l’idea assurda che la mia vita dipenda da questo.
Lentamente il sentiero risale dal costone basso del Lago. Quella strana sensazione non mi abbandona mai.
Vedo l’incrocio con il percorso principale: il cammino delle Piagge che più in là diviene la Via Sacra di Diana Nemi.
Qui la terra battuta lascia il posto a ciottoli erosi dal tempo e dalle migliaia di viaggiatori ed escursionisti che hanno calcato questi luoghi.
Mantengono una certa bellezza però, quella di uno strumento lavorato e usurato, ma ancora affidabile.
Ancora nessuna traccia degli altri . "Devo essere rimasto parecchio indietro" , penso.
Incastonato ad un lato del punto di incrocio delle tre strade vedo un oggetto in terracotta rappresentante tre figure con un cartellino bianco disposto sotto di essa che non distinguo bene.
Mentre faccio per avvicinarmi incuriosito, una voce rompe il concerto di grilli e uccelli di bosco: «Finalmente ce l’hai fatta, te la sei presa comoda eh?».
Mi giro. Lentamente. Occhi sgranati. Il respiro bloccato in gola.
E vengo ripagato dall’imprevedibile.
A circa un paio di metri da me, al centro dell’incrocio, c’è una donna dal colorito caraibico, di mezza età e dalle rotondità evidenti. Quasi floride.
Ha i capelli del colore del faggio scuro, ricci e lunghi fino alla vita. Sono tenuti indietro da fasce di quelle che appaiono essere foglie fresche di felce. Indossa un lungo vestito color ortica, di un materiale a metà tra il raso e lino, con larghe foglie di salvia selvatica che formano un disegno a spirale. E’ a piedi scalzi, ha una corona di legno, nero e luccicante con bacche di ginepro rosso incastonate come rubini, che le cinge il capo. Alle orecchie, pendenti di ghiande e nocciole marrone chiaro. Occhi color del miele in un volto bonario, seppur momentaneamente in preda alla frustrazione.
Tiene le mani sui fianchi. Si sporge in avanti guardandomi con un’aria di rimprovero. Batte il piede per terra impaziente.
Come mia madre quando capiva che non avevo fatto i compiti per giocare ai videogame.
Mi arriva si e no allo sterno.
E’ una vista talmente assurda che quasi mi viene da ridere. I brividi ed il freddo che sentivo si sciolgono come neve al sole lungo la mia spina dorsale.
Poi mi accorgo delle ombre. Se di ombre si può parlare.
(...)
Comments