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Rock 'n' Roll Star - Parte 3

  • Immagine del redattore: Silvio Di Virgilio
    Silvio Di Virgilio
  • 30 set 2020
  • Tempo di lettura: 5 min

Aggiornamento: 2 ott 2020


Quando riaprii gli occhi la prima cosa che vidi fu la targhetta sul camice bianco del medico che si era chinato su di me. Dott. Del Bufalo, si chiamava.


Ci misi un po’ a leggere.


Da quel punto in poi è un turbine di immagini come in un sogno confuso.


I miei che entravano piangendo di felicità nella stanza di ospedale. I medici che mi informavano che ero rimasto 32 giorni in coma farmacologico e che mi ero fratturato tutti gli arti in più punti, compresa una grave commozione cerebrale. Gli amici che mi dicevano che a Livia, almeno, era andata meglio: ha fratture "solo" ad entrambe le gambe. Gli esami degli esperti, dopo la guarigione delle fratture, che riportavano disfunzioni al lato destro del mio corpo. La sensazione di intorpidimento costante al braccio e alla gamba che mi impedivano di muovere bene la mano ed il piede.


Le accuse dei genitori di Livia. La discussione con i miei.


La vergogna nel sentire le loro giuste ragioni.


La sensazione che la mia vita fosse finita quando stava per cominciare davvero.


L'impressione che un liquido nero e freddo aveva riempito il mio petto e che mi impediva di vedere i colori del mondo. Che filtrava ogni frase uscita dalla mia bocca lasciando solo il sapore amaro della rabbia.


Me ne accorgevo dagli sguardi dei miei genitori che mi vedevano peggiorare; dei miei amici, che mi vedevano continuare a scendere in una spirale buia.


Lo percepivo quando Livia ancora mi veniva a trovare. In realtà, il suo sguardo non l’ho più visto. Non riusciva mai a fissarmi negli occhi.


O forse ero io? Non lo saprei dire.


So solo che quegli occhi nocciola non li ho più visti davvero. Non viene più a trovarmi.


Ci siamo lasciati via whatsapp il mese scorso. Si è stancata di darmi retta, come tanti altri.


Forse ha ragione.


Anche Giorgio può darsi che con stamattina ne abbia avuto abbastanza.


Quando si è presentato, col suo sorriso da briccone, che non riesco più a sopportare negli ultimi tempi, con il pacco pesante ed un po’ ingombrante sottobraccio, ero genuinamente incuriosito.


«Ho sentito che i medici hanno detto ai tuoi che se ti applicherai seriamente, mooolto seriamente nelle terapie riabilitative potrai riacquistare il completo uso della mano e del braccio in un paio di anni, ed allora mi sono detto - questa è la volta buona che impara! Una piccola spintarella gli può far venire voglia! - magari potremmo suonare insieme tra qualche mese se ti impegni...» si adombrava un po’ mentre scartavo il pacco, con la scritta - Fender Stratocaster - sotto la carta da regalo «...certo per la tua gamba ancora non sanno dire. Le conseguenze di un coma possono essere imprevedibili sul corpo umano, ma ehi! siamo ancora giovani e sono sicuro che con un poco di costanza supererai anche questa e…» si fermò, guardandomi mentre digrignavo i denti a testa bassa. Il mio pugno sinistro, l’unico pienamente funzionante, tremava stringendo forte la carta colorata.


«E’ uno scherzo?» la voce mi era uscita incrinata dalla gola che sentivo serrata in una morsa. «Ti sembro uno che sia in grado di imparare a suonare una chitarra? Mi stai prendendo per il culo? Ti diverti a raccontarmi queste stronzate? eh?».


Giorgio aveva alzato le mani in segno di pace provando a parare il colpo, ma già vedevo i miei affondi spillare sangue dal suo animo ingenuo ed altruista «No Paolo, figurati. Quando mai! I medici lo pensano veramente! Basta seguire quello che dicono e sono sicuro che con un po’ di pazienza ed impegno…»


Il suono del vetro che esplode lo interruppe lasciandolo di sasso, con gli occhi lucidi.


Dai vetri infranti il liquido spillava per terra a rimembranza di ciò che restava della nostra amicizia.


«Vai. A. Fanculo. Fuori. Di. Qui.»


Le parole erano uscite stridenti, a fatica, da denti stretti e da un cuore troppo provato e arrotolato su se stesso tanto da non sentire più altro che dolore. Come un ingranaggio arrugginito che non sa fermarsi e che ruotando stride di suoni che non gli appartengono danneggiandosi ad ogni giro un po’ di più.


In silenzio, con il volto scuro e lo sguardo fisso a terra, si era girato ed era andato via.


Senza aggiungere una parola.


Ed eccomi qui, nel centro riabilitativo di Villa Serena, poco lontano da casa mia, dove sono ormai tre mesi che non riesco a progredire se non minimamente in queste cosiddetti “processi riabilitativi”.


In compenso sono peggiorato sotto altri aspetti.


Tutto confluisce in questa stanza. A stamattina. Quando ho gettato via l’ultima amicizia che mi restava.


“Bravo Paolo. Ottimo lavoro” penso tra me e me. “Ora non ti resta che mandare a quel paese i tuoi. E già che ci sei potresti insultare anche l’infermiera carina che viene la mattina, poi hai finito”.


Non faccio in tempo a pensarlo che sento bussare alla porta.


Mentre discosto lo sguardo un po’ imbarazzato scorgo il camice verde da infermiere ed una testa dai capelli scuri raccolti in una coda alta, fare capolino dalla porta.


«Tutto bene? Ho sentito un rumore di vetri rotti ed ho pensato potesse servirti una mano» c’è un velo di preoccupazione sul volto olivastro e delicato dell’infermiera.


Ho sentito che si chiama Laura.


Fa scorrere lo sguardo per terra e stringe leggermente le labbra piene in segno di disapprovazione evidenziando il neo sull’angolo destro della bocca «Che disastro! Aspetta, prendo una scopa e torno, tu magari nel frattempo prendi quei tovaglioli sul comodino ed inizia ad asciugare un po’…».


«No!» sbotto. Lei mi guarda un po’ stupita della mia esclamazione.


Con lo sguardo che guizza a destra e sinistra continuo « Non...non ce la faccio a chinarmi bene dalla sedia a rotelle per asciugare» e faccio per girare la carrozzina verso la finestra cercando di darle le spalle.


Laura, per niente impressionata, mi guarda con la braccia conserte «Certo, forse se ti fossi impegnato seriamente nelle sedute di riabilitazione degli ultimi tre mesi, allora avresti potuto dare una mano più agevolmente» poi con un tono più accondiscendente «Dai, ce la puoi fare. Intanto vado a prendere una scopa e…».


«Ho detto, no!» quasi gli urlo contro. Laura mi guarda con un’aria leggermente ferita mentre cerco di addolcire inutilmente i toni «...no, scusa ma so di non farcela da solo». Mi allungo dalla sedia e con la mano sinistra per prendere il rotolo di Scottex sul comodino e faccio per passarglielo.


Lei è ancora ferma accanto alla porta con le braccia conserte.


E’ in una posa plastica che ne evidenzia il fisico snello nonostante il vestito verde da infermiere e le ciabatte bianche antinfortunistica, mi guarda scuotendo lentamente il capo « Paolo, tutti hanno bisogno di aiuto qualche volta, è vero, ma fidati, l’aiuto più importante viene da te stesso. Sai a casa mia capitava…»


La interrompo stizzito «Cos’è che non è chiaro? Ti ho detto che conosco i miei limiti meglio di te» allargo le braccia per evidenziare il mio stato «Non ho bisogno di lezioni di vita da un'infermiera che non ne sa niente di quello che vuol dire essere così...» chiudo la mandibola di scatto mordendomi la lingua, ma troppo tardi. Le parole ormai sono uscite prima che io sia riuscito a tappare la mia dannata bocca, come vipere al sole di Maggio.


Rimango immobile, congelato per paura della reazione. Un escursionista che si finge morto davanti ad un orso bruno per evitare di essere sbranato.


Lampi di rabbia e delusione riempiono gli occhi di un deciso color cobalto. Scuote indignata il capo insieme alle ciocche che le scendono dalle tempie. Si gira con la veemenza di una tempesta ed esce sbattendo la porta. «Ma che stronzo! Ed io che lo prendo anche a cuore…» le sento dire ad alta voce mentre si allontana come un piccolo tornado nel corridoio.


“... mi prende a cuore?!” sento una leggerissima sensazione al petto, un piccolo salto nel vuoto che dura quanto un battito d’ali di un colibrì.


Non faccio in tempo ad analizzare quanto accaduto che sento una voce con uno strano accento, venire dalla camera alle mie spalle.


«Strano approccio da adottare con una ragazza che ti piace. Ai miei tempi si era più cauti. Devono essere tecniche nuove, interessante…»


Mi giro, confuso, verso una scena surreale.


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