Rock 'n' Roll Star - Parte 5
- Silvio Di Virgilio
- 4 ott 2020
- Tempo di lettura: 5 min
Aggiornamento: 6 ott 2020
Passiamo almeno trenta minuti buoni a raccogliere coca-cola, ghiaccio e vetri da per terra.
Metto della musica dallo smartphone. Come facevo quando riassettavo la mia stanza a casa. Le note di Champagne Supernova e di Cast no Shadow degli Oasis, mi accompagnano nel lento rituale del chinarsi dalla sedia, asciugare, raccogliere e gettare il tovagliolo bagnato nella pattumiera.
Stranamente, ogni volta che mi tiro su e cerco il piccolo secchio della mia stanza, lo trovo sempre esattamente accanto a me. Alla mia destra. Mi costringe a passare il tovagliolo nell’altra mano, quella lesionata, e ad allungarmi. Eppure non mi sembra di averlo mosso.
Guardo con la coda dell’occhio Takezo che mi guida nello scovare ogni scheggia o cubetto di ghiaccio che sfugge al mio sguardo. Mi ricorda una chioccia col pulcino: ansiosa di stare accanto alla sua prole ma integerrima nello spingerli col becco a muoversi nella direzione pianificata.
Il secchio è pieno di pezzi di carta bagnati ed appiccicosi quando abbiamo finito. Mi fa male tutto, soprattutto la schiena ed il braccio destro. Ho un taglietto procurato da un vetro sull’indice sinistro.
Non mi sentivo così bene da un sacco di tempo: i trenta minuti più produttivi da mesi a questa parte.
«Benissimo!» esclama Musashi saltando di nuovo verso la finestra sfoderando la katana di legno e mimando un attacco dall’alto, in direzione di un nemico immaginario.
La katana disegna un perfetto arco e si ferma esattamente all’altezza del cuore di un avversario invisibile «Il più è fatto, ora mancano giusto un paio di cose» dice ripetendo l’attacco ed alternandolo con una coppia di parate precise a destra e sinistra che lo fanno arretrare di un paio di passi.
«Impegnarsi seriamente nella riabilitazione come dicono i dottori, tanto per cominciare. Anzi direi impegnarsi il doppio« attacco dal basso verso l’alto, verso l’inguine nemico «Chiedere scusa a Giorgio ed ai tuoi amici per il tuo comportamento...» affondo in allungo verso il ventre, veloce come un serpente «...anzi facciamo che lo chiedi anche ai tuoi già che ci sei».
Mi sento al centro di un vortice di vergogna.
Stranamente però non è quella vergogna cupa e rabbiosa che ho provato fin’ora.
No.
Questi ovvi suggerimenti, venendo da lui, non mi danno fastidio. Anzi, mi sento spronato.
Certo, mi sento ovviamente anche un po’ schiacciato dalla pressione e dalla mole di richieste.
Ma sento che ce la posso fare.
Nonostante ciò rispondo ridacchiando «Nient’altro? Gradiresti anche che imparassi a fare la verticale per settimana prossima?«
Takezo, finita la sequenza di attacchi, rinfodera il bokken nella cintura ed esegue un secco inchino verso il muro bianco decorato con vernice verde acqua.
«Si, qualche altra cosa c’è» girandosi mi aggancia con il suo sguardo intenso «Io sono quel che sono: un samurai. Sono stato abbandonato da mio padre sui monti quando ero bambino con un bastone di legno come questo e nient’altro» tiene in mano il bokken e lo fissa con uno sguardo perso «Ho ascoltato la montagna, che è diventata la mia maestra nell’arte della katana. Sono sopravvissuto, grazie a lei. Mi ha salvato».
Lo guardo confuso «Vuoi che impari a maneggiare una katana?» sarebbe troppo strano anche per questa situazione assurda.
Lui mi guarda. Scuote lentamente il capo, poi dirige lo sguardo sul letto.
Dove una fiammante Fender Stratocaster rosso fuoco sembra sbirciarci facendo capolino dalla spalliera del letto.
Silenzio.
Inevitabilmente esplodo in una risata nervosa «Dai...oddio scusa non ce la faccio. Non puoi dire seriamente. Non puoi essere serio!» l’ultima frase mi esce a metà tra una presa in giro ed una supplica, ma anche mentre la finisco già so che non è così.
Guardo la chitarra di Giorgio poggiata lì, che mi ricorda che pessimo amico e persona sono stato con lui questa mattina. Con lui e con altri, come Musashi ha sottolineato.
Poi guardo la strana apparizione che con la delicatezza di un carro armato ha fatto la sua assurda irruzione nella mia vita.
Musashi Miyamoto. Takezo.
Informazioni sorgono nella mia mente come bolle d‘aria da una vasca idromassaggio. Le avevo accantonate in qualche angolo remoto della mia testa. Ricordo di aver letto un’intera collana di fumetti sulla sua vita, quando avevo 18 o 19 anni.
Samurai leggendario. Genio della katana. Filosofo. Pittore ed artigiano di squisito talento. Colui che ha scritto il libro “I Cinque Anelli”, volume ancora consigliato come un esempio di arte strategica del mondo antico al pari di “L’arte della guerra” di Sun Tzu.
Molto in voga tra i Manager.
Ma non era solo quello, no.
Nato in una famiglia povera divenne famoso grazie alla sua caparbia tenacia tanto da guadagnarsi l’appellativo di Oni, “Demone” del folklore giapponese, per il suo genio.
Creò la propria tecnica di katana che predicava l’uso di due spade contemporaneamente: il “Niten Ichi Ryu”, la Scuola dei-due-cieli-in-uno. Innovò con la sua genialità la visione del combattimento di spada in Giappone.
La sua scuola, tra l’altro, fu più di una scuola di scherma. Fu una vera e propria dottrina filosofica.
L’essere sempre pronti a cambiare, ad adattarsi, come un liquido in un contenitore.
Predicava la flessibilità, e lo sfruttare quello che ti accade per vincere. Sempre.
Artefice del proprio fato. Creatore di arte. Dominatore di concetti impossibili, di rotture di schemi.
Plebeo diventato Dio, contro ogni aspettativa. In barba al senso comune ed alle difficoltà.
Ecco chi era l’uomo che, incredibilmente, è di fronte a me ora.
Inondato da questa piena di informazioni, fisso quello sguardo adamantino che sembra trasmettermi forza e mi sento improvvisamente inadeguato.
“L’amico qui è dannatamente serio…” penso scuotendo il capo.
Takezo sembra leggermi nel pensiero e fa un cenno affermativo con la testa «Ognuno ha il suo tempo. Ognuno ha il suo strumento».
Soverchiato dalla situazione mi sgancio dalla sua presenza e conduco rapido la carrozzina verso la finestra, dandogli le spalle.
Mi sento uno straccio che è stato usato, tirato, strappato, rattoppato e ancora usato. Uno straccio inadeguato a reggere le aspettative di una leggenda così, per quanto essa sia un’allucinazione, ma il suo sguardo dice il contrario.
Non sarebbe la prima volta che deludo qualcuno. Più di qualcuno. Lacrime di frustrazione mi oscurano improvvisamente la vista.
«Dimmi solo una cosa, tu che affermi di essere a piedi scalzi, di sentire la terra...hai mai percepito il suolo scivolare via? Roteare sotto i tuoi piedi insieme ai tuoi sogni ed a quelli di chi volevi bene? Sapendo che per quanto intensamente tu provassi a fermarlo non c’era niente da fare?» un grande peso sembra concentrarsi nel mio petto mentre pronuncio queste parole.
Lo sguardo di Musashi sembra addolcirsi leggermente, un lampo di dolore passa attraverso il suo sguardo.
Ma non vacilla. Mai.
«Certo che l’ho provato. Ero lí con te, quel giorno…» afferma, con un sorriso amaro in volto.
Quell’affermazione mi colpisce con la forza di un maglio e mi scuote l’anima.
Con gli occhi lucidi, ma con una strana sensazione di leggerezza nel petto chiedo « Riuscirò a sentire ancora la terra sotto i piedi prima o poi? »
«Una cosa per volta Paolo. Una cosa per volta».
Posandomi una mano sulla spalla, si affianca a me. Ma non dice più nulla.
E nemmeno io.
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