Rock 'n' Roll Star - Parte 6
- Silvio Di Virgilio
- 7 ott 2020
- Tempo di lettura: 5 min
Aggiornamento: 8 ott 2020
Sono passati mesi da quella strana mattina. Mi sono impegnato il doppio, il triplo negli esercizi riabilitativi. Per lo stupore dei medici e dei miei familiari.
Ho parlato con Giorgio. Gli ho chiesto scusa...a lui ed ad un’altra mezza dozzina di amici stretti.
Incredibile quanto velocemente una persona può farsi terra bruciata intorno.
L’ho anche ringraziato per lo splendido regalo, promettendogli che, sì, ci avrei provato a suonarla.
Ed è proprio quello che sto tentando di fare ora.
La tengo poggiata in grembo per evitare di sforzare troppo la mano destra che prova a pizzicare lentamente le corde in un accenno di arpeggio, mentre la sinistra tiene il manico leggermente verso l’alto, calibrando gli accordi.
Musashi è accanto al letto in posizione meditativa a gambe incrociate.
Fa sempre così quando provo ad usare la chitarra. Dice che l’aiuta a rilassarsi.
Ma se non mi entrano due note di fila!
Delicatamente e con una lentezza a tratti esasperante, tocco le corde della chitarra, cercando di seguire i suggerimenti che ho ricevuto.
Ho preso qualche lezione da Marco, un ragazzo che è in carrozzina sin da quando era bambino. E’ un musicista di professione e suona da Dio. Il suo ramo è l’heavy metal.
E’ un grandissimo appassionato dei Pantera e mi sta insegnando un sacco di cose, anche se faccio fatica ad applicarle, ancora.
Le cose negli ultimi mesi sembrano lentamente andare meglio. Takezo non mi ha più mollato da quel giorno.
E’ lì accanto a me continuamente lasciandomi a malapena un po’ di privacy quando vado al bagno. Non lo vedo mai in giro quando sono in mezzo alla gente, anche se posso sempre percepirlo. Probabilmente è solo nella mia testa.
Eppure, certe volte, sono convinto che interagisca con il mondo intorno a me: una ciabatta spostata, un plettro che si è mosso dal tavolo al comodino, un lenzuolo scostato.
Cose così.
Ho notato inoltre che è estremamente sensibile ad i miei umori “A volte sembra quasi leggermi nel pensiero…” penso pigramente mentre lo sbircio dalla posizione sopraelevata del letto.
Non faccio in tempo a finire il pensiero che lo vedo aprire un occhio nella mia direzione «Qualcosa ti turba».
“Come volevasi dimostrare” scuoto il capo continuando ad esercitarmi con la chitarra «Non è che sono proprio “turbato”...riflettevo».
Con un movimento fluido da gatto, si solleva dal pavimento stiracchiandosi «E cosa stavi pensando, sentiamo».
Rispondo mentre provo il cambio tra Sol Maggiore e Re Maggiore. Nella mia testa già sto cercando di trovare gli accordi per Wonderwall degli Oasis anche se non ho idea di cosa debba fare «Beh, stavo pensando a Livia, al tempo che ho speso con lei. Mi è dispiaciuto non averle ancora potuto chiederle perdono per quello che è successo…».
Il Samurai è rivolto verso la finestra, guarda fuori. Non riesco a scorgere il suo viso ma sembra sorridere «Non è solo questo».
Roteo gli occhi «...e mi dispiace anche di non aver avuto modo di parlare con Laura, l’infermiera. Non sono stato il massimo l’ultima volta…»
Non sono più riuscito ad incrociarla da solo sin dalla nostra discussione di più di tre mesi fa.
Mi ha evitato per tutto il tempo oppure ha fatto in modo di entrare in contatto con me solo per lo stretto indispensabile.
Anche se ho la sensazione che mi abbia osservato da lontano.
Tutto ciò mi crea un’inspiegabile sensazione di fastidio.
«Musashi, dimmi una cosa, sei mai stato innamorato? Ci ho pensato molto i primi tempi dopo l’incidente...quando Livia mi ha lasciato...non sono sicuro di quello che provavo. Penso che ci siamo divertiti un sacco, lei ed io. Siamo cresciuti insieme sin dal liceo ma credo di non essere mai stato innamorato di lei. Come se non ne avessi avuto la capacità» faccio spallucce mentre continuo a tentare di suonare gli accordi «Forse alcuni semplicemente non ce l’hanno».
Takezo si volta leggermente verso di me, ora posso vedere il suo sorriso, che sa di animalesco, disegnargli sul volto un arco che addolcisce i suoi tratti selvaggi...seppur evidenzia le rughe intorno agli occhi. Il momento dura un attimo. Torna a voltarsi verso la finestra.
«C’era un mio amico. Un monaco buddhista, si chiamava Takuan. Una volta gli fecero una domanda simile. Lui rispose che non era così. Solo, alcuni amori sono talmente grandi che durano più della vita di una persona. Strabordano, dilagano selvaggi ed irrefrenabili. Invadono spazi di vite successive non loro. Come una torta di pasta di riso che lievitando troppo esce dalla forma prevista dal cuoco» stringe le spalle per poi scrollarle e raddrizzarsi tenendo un braccio muscoloso sul lato della finestra «Ecco perché per alcune persone fanno fatica ad innamorarsi: in realtà quello che cercano è l’amore di un altro. Di un altro tempo, di un altro luogo...di un altra vita. Sono stati conquistati da forze più grandi di loro che nemmeno comprendono. Ma le vite degli uomini sono cicliche. Ed il tempo è una ruota. Anche quell’ombra d’amore scemerà e si avrà spazio per provare di nuovo quei sentimenti. Se si è veramente fortunati, incrociando la stessa anima di vite prima. Tutto ciò rende solo più raro e prezioso quel momento, per quelle persone».
Ho smesso di suonare mentre Takezo parlava. Affascinato da quell’iniezione di filosofia buddhista di centinaia di anni prima.
Mi è sembrato che nella sua voce si nascondesse...nostalgia? Devo essermelo immaginato…
Un secco “Toc-toc” alla porta mi strappa dai miei pensieri catapultandomi nella vuota realtà del mio stomaco: è l’ora di pranzo e non me ne sono accorto.
«Avanti» rispondo mentre metto da parte la chitarra e mi muovo a bordo del letto verso il tavolinetto reclinabile per i pasti.
Finisco di preparare la principesca tavola per il mio meritato pranzo, tirandola su dal suo alloggiamento e bloccandone i perni.
Alzo gli occhi e mi congelo sul posto.
Laura è in piedi di fronte a me con un volto imperscrutabile, reggendo il vassoio con il mio pranzo, in attesa che finisca di liberare il piano di appoggio.
Resto per un attimo interdetto mentre meccanicamente finisco la preparazione del tavolo.
Lei coglie l’attimo, poggia il vassoio sul tavolino con un secco «Ecco qui, buon appetito», si volta e fa per uscire.
«Aspetta!» la parola mi esce da dentro con un tono urgente, ad alta voce.
Lei si ferma con la mano sulla maniglia.
«Aspetta» dico più calmo e deciso «Non abbiamo più avuto modo di parlare. L’ultima volta sono stato uno stronzo, mi spiace».
Laura mi guarda, come se avesse paura che io prosegua.
Un po’ intimorito dal suo carattere rinomatamente belligerante continuo: so cosa devo fare questa volta.
So cosa voglio.
«Mi ricordo che stavi cercando di insegnarmi qualcosa, di raccontarmi qualcosa. Di tuo. Ora, se lo vuoi ancora, sono qui» lentamente faccio un cenno alla sedia di fronte a me.
Noto il suo sfuggente sorriso all’angolo della bocca perfetta mentre si siede lentamente, molto lentamente, di fronte a me.
Musashi assiste al dialogo dal remoto angolo di un sottile strato di non esistenza. Guarda la scena attraverso Paolo come da un cinema che al posto dello schermo ha una gigantesca lente d’ingrandimento sul mondo.
Le parole che si scambiano sono un’eco ovattato.
Vede Laura accettare l’invito di Paolo a sedersi. La vede incerta su cosa dire. Su come cominciare.
Poi vede la diga cedere.
Vede i due iniziare una danza.
Si parlano. Si ascoltano. Si scoprono. Legami forgiati dalla reciproche luci ed ombre tramite segreti svelati, non più nascosti, mentre il sole si muove lento nel cielo.
Nascono intese dove non ce n’erano. Terreni fertili, dove c’era il deserto. Calore, dov’era solo ghiaccio.
Paolo racconta l’incidente: l’incredulità, il senso di colpa, la vergogna, la rabbia ed il dolore.
Laura risponde con l’esperienza: la malattia del padre, la sua forza, la sua determinazione, la sua serenità.
Fino alla Fine.
Presto tra di loro non resta che il silenzio della conoscenza. Il sapore delle lacrime.
Il rumore di mani intrecciate in un sorriso.
Da recessi di dimensioni prive di tempo, dove solo la Psiche può dimorare, Musashi è il silente testimone di una nascita.
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